Un mare vuoto, privo di vita, senza alcun pesce che nuota. Sono i manifesti della nuova campagna lanciata dall’organizzazione Essere Animali per la Giornata mondiale degli oceani, che si celebra l’8 giugno. Le affissioni nella metro di Milano rappresentano un preoccupante grido d’allarme sull’estinzione di molte specie marine. A minacciarne la sopravvivenza sono in gran parte la pesca intensiva e l’acquacoltura.

Secondo i dati del rapporto FAO, Lo stato della pesca e dell’acquacoltura, nel 2018 la produzione ittica mondiale derivante dalla pesca intensiva ammonta a 96,4 milioni di tonnellate di animali acquatici, mentre quella proveniente dall’acquacoltura è pari a 82,1 milioni di tonnellate e, pur costituendo il 46% della produzione totale, rappresenta il 52% del pesce destinato al consumo umano diretto. Il settore sta conoscendo una crescita globale esponenziale, dal 1990 al 2018 gli allevamenti di pesci sono aumentati nel mondo del +527%.

Sempre secondo i dati FAO, a livello globale il consumo di prodotti ittici in soli 60 anni è raddoppiato, passando dai 9 kg del 1961 ai 20,5 kg del 2018. In Italia, secondo i dati Eumofa 2018 , il consumo pro capite di pesce è di 31,02 kg l’anno, del 50% più alto rispetto alla media mondiale e molto più alto della media europea, che si assesta a 24,3 kg.

La pesca intensiva

Ma se la pesca intensiva sta svuotando i mari e gli oceani, l’acquacoltura non può di certo essere considerata un’alternativa sostenibile, in quanto contribuisce direttamente allo sfruttamento degli stock ittici. “Infatti – spiega Claudio Pomo, responsabile sviluppo di Essere Animali – le specie più comunemente consumate in Italia, come orate, branzini e salmone, provengono già principalmente dagli allevamenti e sono carnivore. Per alimentarle è necessario quindi utilizzare mangimi che contengono farina e olio di pesce, realizzati con i cosiddetti pesci ‘foraggio’, provenienti soprattutto dalla pesca intensiva. Si calcola che una porzione pari a un terzo dell’attuale pesca, ma alcuni studi suggeriscono che tale stima possa spingersi sino al 50%, venga utilizzata per alimentare i pesci negli allevamenti”.

Oltre a dipendere fortemente dalle catture in natura, l’acquacoltura ha inoltre conseguenze negative per l’ambiente. Per esempio, gli allevamenti in mare sono costituiti da gabbie situate lungo le zone costiere, con all’interno centinaia di migliaia di pesci a cui vengono somministrati antiparassitari e medicinali, anche agli individui sani. Si tratta di sistemi di produzione aperti, dove residui di farmaci e sostanze chimiche, come disinfettanti, vengono rilasciati nel mare e danneggiano l’ecosistema circostante e i suoi abitanti.

La pesca intensiva

Uno studio diffuso su Nature stima che sino all’80% degli antibiotici contenuti nei mangimi si disperda nel mare, esercitando una pressione selettiva sui batteri presenti e agevolando il fenomeno dell’antibiotico-resistenza, una seria minaccia per la salute pubblica. I pesci allevati possono inoltre fuggire dalle gabbie e una volta in mare aperto competere con le popolazioni libere per gli spazi e le risorse, causando inquinamento genetico e trasmettendo malattie, un rischio per la biodiversità acquatica.

“La pesca intensiva e l’acquacoltura costituiscono un circolo vizioso di sfruttamento delle risorse marine. Se non invertiamo la tendenza attraverso i nostri consumi, l’oceano diventerà un deserto d’acqua. Se vogliamo salvare gli oceani dobbiamo proteggere i suoi abitanti. La soluzione c’è-conclude Pomo -con le nostre scelte alimentari possiamo evitare uno scenario tragico”.

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